Quando scrivo di "miei" ragazzi non lo faccio in spirito e volontà di possesso, di narcisistica ricerca di visibilità personale, di strumentalizzazione ( che è sempre un rischio, anche sottilmente inconscio), piuttosto mi viene naturale chiamarli così, "miei ragazzi", perché tengo tanto a loro, e prego per loro, per il loro bene, perché possano sperimentare il sentirsi amati, per poter magari "guarire" ed amare a loro volta. Alcuni di loro non sono giovanissimi, qualcuno è anche più avanti di me nell'età, c'è però un ragazzo di 19 anni, che anagraficamente potrebbe essere mio figlio. Si chiama G., ed è stato affidato dal carcere un mese fa (quasi tutti i "miei" ragazzi sono in regime carcerario, affidati alla comunità perché seguano percorsi di disintossicazione e di affrancamento dalle dipendenze da droghe ed alcol- almeno questa è la speranza), e fin da subito, nelle mie domeniche pomeriggio di servizio, ho attratto la sua disponibilità a condividersi, a farsi ascoltare, ad interagire. Il suo dolore, enorme, tragico, con cui fa i conti da tempo, me lo ha spiattellato in faccia, fin da subito, con una lucidità " disarmante", ma non autentica: G. racconta del suo dolore "facilmente", troppo facilmente, come se non fosse il suo, come se non gli appartenesse, come se facesse riferimento ad una persona terza, estranea a quel dolore. Le droghe, tante e varie, e l'alcol, come abuso, non erano che analgesici per lui: stordirsi per non sentire il dolore, per non vedere il mondo fuori, cosi' infame, spietato ed indifferente, e non solo perché lo ha ignorato, ma peggio, perchè lo ha anche sfruttato, sin da giovanissimo, anche come forza lavoro in nero nei cantieri della ricchissima Svizzera. Provo amore per tutti i "miei" ragazzi della comunità, ma per G. ancor di più, perché è il più piccolo, e forse, il più "ultimo" tra gli ultimi, se non altro perché temporalmente è proprio l'ultimo arrivato in comunità. Lo ascolto, ci gioco a biliardino, non a ping pong perché è proprio una schiappa.Vorrei aiutarlo, vorrei portarlo, dargli una spinta in questa salita che è la vita. Vorrei aiutarlo ad imparare a volare, almeno un po'. Aiutarlo a sperare, a credere che forse, un giorno, potrà sognare, magari una fidanzata, una casa, un lavoro ed una vita dignitose. Prima di venir via dalla comunità ho salutato i "miei ragazzi", avrei voluto abbracciarli tutti, ma le restrizioni per l'epidemia di covid giustamente non lo permettono, e vanno seguite...andrebbero seguite, perchè con G. non ci sono riuscito, e l'ho abbracciato. L'ho salutato, ci rivedremo la prossima Domenica a Dio piacendo. Non posso fare altro, condividere un po' di tempo con lui, guardarlo in volto, nei suoi occhi, oltre il suo sguardo spento, di un sorriso superficiale che prova a nascondere tristezza, di uno sguardo indifferente e vuoto, da cui, sotto, traspare un grido, immagino di rabbia e di dolore. Condividerla quella sua rabbia e quel suo dolore.
Farli uscire, dargli spazio, in un abbraccio, sincero. Vorrei, più che raccontarglielo, testimoniare che il dolore va attraversato, dandogli un senso, sapendo che non siamo mai soli, che c'è una luce che ci muove, a cui non solo aneliamo, ma a cui siamo destinati. La risurrezione non è un concetto astratto, o solo teologico, ma un cammino da compiere, quello del Vangelo, verso la liberazione anche da tutte le sovrastrutture- persino
Testimoniargli che cio' che vive ed ascolta la Domenica nella Messa che celebriamo in comunità, la liturgia, i canti, la preghiera, il Vangelo e l'Eucarestia soprattutto, sono parte di un cammino, del cammino, che non può, ma soprattutto non vuole, evitare il dolore, ma che però può attraversarlo, dargli un senso, trasformarlo. E Liberarlo, liberandoci. A partire dalla piu' grande verità: e cioe' che non siamo soli. Che tu G. non sei solo.
Giuseppe L. Mantegazza
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