venerdì 29 maggio 2020

Crisi D'Identità, Caducità Della Vita E Mani Protese Agli Ultimi.

Di questo tempo, che pare essersi “congelato”come conseguenza del
blocco per fermare la pandemia, ricorderò le frequenti camminate
pomeridiane nei boschi, in solitudine, percorrendo sentieri che si
inerpicano in una fitta vegetazione: a rendere lieve il cammino e’ il
continuo canto di merli e di cuculi che lo accompagna, insieme
all’imbattermi, non raramente, in gruppetti di scoiattoli, che al mio
arrivo fuggono nelle loro tane, presumo dentro vecchi incavi sopra
alcuni fusti di abeti.
Fuggono sempre nella stessa direzione, sugli stessi alberi, da cui, al
sicuro, scrutano il mio passaggio, protetti e confortati dalle loro
piante, dalle loro radici.
In questi ultimi anni mi pare di aver camminato molto, da quando
decisi di lasciare un discreto stipendio fisso in una solida azienda
di telecomunicazioni, per fare esperienze di vita e di missione, da
volontario, negli Stati Uniti, in Messico, in Africa, prima di un
periodo di “discernimento” fino alla decisione di iniziare
“strutturalmente” un cammino religioso missionario.
A distanza di 4 anni mi ritrovo, da “giovane ormai attempato” ad
essere rimasto l'unico novizio, in un noviziato “bloccato”, in attesa
di poter riniziare il cammino con esperienze formative.
Non mi lamento, in questo tempo che ha mostrato l’incertezza del
quotidiano, la rottura della linearità anche a chi ha più o meno
sempre camminato su linee rette, un cammino come il mio avrebbe dovuto
abituarmi alla precarietà esistenziale. Ed in parte lo ha fatto, ma
c’è un altro fattore che sento molto sollecitato in questo periodo: si
chiama identità, qual’è la mia?
Sono nato a Milano, ma non mi sono mai sentito del tutto milanese: più
o meno tutti i fini settimana li passavo in una valle incastonata tra
il lago di Como ed il Lago di Lugano, terra che ha dato i natali a
mamma e papà, e questo già prima che venissi alla luce, ancora nel
grembo materno.
Dunque milanese ma non abbastanza, perché pur amandone l’apertura
mentale, allo stile di vita cittadino sono sempre stato poco avvezzo,
allergico come sono al cemento ed allo snobismo modaiolo; dunque
“valligiano” o “montanaro”, ma non abbastanza, perché pur amando le
montagne, i boschi, i laghi, e pur apprezzandone la vita più genuina
ed a misura d’uomo, il provincialismo ed il bigottismo li ho sempre
repulsi, così come ho sempre repulso ogni identitarismo di provenienza
ed appartenenza, che peraltro e’ sempre "povero", chiuso e rigido.
La benevolenza che sento aprirsi in me tutte le volte che cammino in
un contesto di natura armoniosa, mi riconduce alle radici affettive, e
questa, penso, è una certezza, che però non mi basta: “qual’è la mia
identità?” continuo a ripetermi come un mantra.
 Non ho una professione, non ho un lavoro, sono in un cammino
religioso ma non sono religioso, non ho ancora professato alcun voto,
ho più di quarant’anni, ho viaggiato in molti posti del mondo, negli
ultimi quattro anni ho vissuto nel Nord degli Stati Uniti, in Africa,
a Bologna, a Padova ed infine in Portogallo, ho imparato lingue,
conosciuto tante persone, soprattutto, meglio, me stesso.
Soffro gli ambienti rigidi e freddi, le gabbie strette, mi sento vivo
dove il vento tira più forte, sui crinali delle montagne, sui grandi
spazi dove il cielo si apre, nelle frontiere geografiche e
dell’esistenza umana, ho sempre sentito una forte chiamata agli
ultimi, alla giustizia, al vangelo del Gesù liberatore.
Ormai, davanti ad un tramonto che colora il cielo di amaranto, mi pare
di essere ovunque, nel mio tempo passato od in luoghi lontani, di
tornare ai miei vent'anni, di essere in ogni posto in cui ho ammirato
meravigliosi cieli ai tramonti: di fronte al pacifico in America
Latina, di fronte agli infiniti orizzonti dell’amata Africa, davanti
alla vastità degli spazi della profonda frontiera e dei grandi laghi
del nord America.
Non so se i destini dell'umanità si decidano davvero più nelle
periferie e nelle frontiere che nei centri, ma di una cosa ho
certezza: sulle frontiere, proprio perchè più che altrove
sperimentiamo la caducità della vita, tutto ha un sapore più autentico
e più colorito, proprio come il colore di quei tramonti.
Una delle opportunità che sto vivendo in questo periodo, è di poter
condividere un pò di questo tempo con una decina di migranti custoditi
da una cooperativa qui vicino, tirare calci al pallone in
gruppo, ascoltare timidamente qualcuna delle loro storie di
sopravvissuti, sbarcati quasi un anno fa a Pozzallo, in Sicilia, dal
rimorchiatore “Asso 25”, che li aveva recuperati dopo 3 giorni in mare
su una bagnarola alla deriva, senza cibo, in balia delle acque e dei
decreti cattivisti dell’allora Governo italiano. Fu la Cei a prenderli
in carico.
Così fragili nella loro condizione di rifugiati o di richiedenti
asilo, così forti, pieni di vita e di speranza, nella loro gioia ed
allegria contagiosa.
Hanno lasciato zone rurali dell’Africa Subshariana attraversando il
deserto , poi il Mediterraneo, appartengono ad etnie, qualcuno anche a
tribù, spesso chiuse e difficilmente accessibili, eppure sono in
movimento, attaccati alle loro “radici”, anche culinarie,  incuranti
dei miei interrogativi sulla  identità. O forse no, perché è proprio
davanti a loro, che questo goffo e piccolo, rispetto a loro, europeo,
“costruisce” la sua identità. Una identità che torna radice, nel
momento in cui ritrovo una sintonia affettiva, una relazione
affettiva, sia essa con madre terra o con questi ragazzi
così fragili, una identità che si costruisce nella relazione, dunque
in un processo non statico, ma in continuo divenire. Che e’ il
contrario di quell’identità statica e monolitica che qualcuno vorrebbe
rivendicare, strumentalizzando persino Dio,  per chiudersi e
contrapporsi ad altri, contrapporsi oggi soprattutto a chi arriva
proprio dall’Africa, e magari e’ anche mussulmano, come i miei vicini
Ibraim e Yangine del Mali,  Ali e Mustafà del Senegal, Yenro del
Gambia, ma anche a quelli tra loro che sono cristiani, come Bernard,
Yhoannes del Sud Sudan e Henry della Nigeria.
E’ davanti a loro che si costruisce la mia identità, che si
costruiscono le mie scelta di vita e di speranza, davanti a loro che
trovo il senso di questo cammino poco lineare.
L'identità come un processo che interessa me in funzione del prossimo,
cioè la mia identità inizia nella mano protesa al più fragile, al più
oppresso, al più povero: e’ affetto, radice, identità, ed anche
relazione di reciprocità.
Sulla rivista dei gesuiti “Civiltà Cattolica”, la settima scorsa
leggevo, a commento della lettera di Papa Francesco inviata alle POM
(Pontificie Opere Missionarie), questa citazione di Sant’Alberto
Hurtado, che, poco prima di morire, stava scrivendo qualcosa sul
«senso del povero», che per lui era l’essenza del cristianesimo;
scrisse: «Il senso del povero è la capacità di interessarsi al povero,
di scoprire nella fede la sua vera identità, vale a dire, che il
povero è Cristo, dunque dell'avere una devozione affettuosa per il
povero, che implica il rispetto e la cura per la sua dignità”.
Ecco, credo che la risposta sulla mia identità stia tutta in queste parole.
Giuseppe L. Mantegazza


Nessun commento:

Posta un commento